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Città scossa da un boato nel dicembre 2015: individuata la causa

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Boato a Gorizia

Alle ore 16.35 del 10 dicembre 2015 un rumore fortissimo si propagò dalla località di Sant’Andrea in tutta la città di Gorizia. Testimoni riferirono di aver notato, immediatamente dopo il forte boato, una densa colonna di fumo nero salire dalla zona dello stabilimento della ditta COVEME di via Gregorcic e nel parcheggio retrostante la ditta, dove conversero Vigili del Fuoco, ambulanze e Forze di Polizia, si trovarono alcune parti di lamiera metallica di differenti spessori, dimensioni e peso.

Si constatò che, per fortuna, nessuno aveva riportato danni e gli edifici erano integri. Nella stessa serata un abitante di Sant’Andrea consegnò alla Polizia di Stato una scheggia metallica che aveva colpito la sua autovettura mentre parcheggiava in via Natisone. Tra le cause ipotizzate venne considerata l’esplosione di un grosso petardo o, comunque, una “ragazzata” in prospettiva dei botti di fine anno.

Nei giorni seguenti, nel corso di sopralluoghi, si notarono evidenti lesioni alle piante d’alto fusto nella zona circostante e alcuni operai della ditta COVEME trovarono una barra metallica contorta, del peso di 2200 grammi, conficcata sul tetto della fabbrica. Fu così posta sotto sequestro giudiziario l’area recintata collocata nei pressi dello stabilimento al fine di sviluppare un’approfondita indagine post esplosione con incarico tecnico a personale EOD, acronimo inglese per Explosive Ordinance Disposal, cioè bonifica ordigni esplosivi, del 3° Reggimento Genio Guastatori di Udine.

Nell’area è stato trovato un consistente numero di residuati bellici ammassati alla rinfusa, per la maggior parte granate d’artiglieria e parti di esse, e numerosi residui di materiale esplosivo detonante, in specie acido picrico. L’involucro di una granata cal. 149 “prolungata”, che in origine poteva essere caricata con oltre 8 kg di tritolo o, addirittura con aggressivi chimici, presentava chiari segni di una dissennata e scriteriata manomissione effettuata con un disco da taglio con lo scopo di separare la parte ogivale dal bicchiere della granata.

La scena dell’incidente era radicalmente mutata perché si era tentato di occultare alla vista gli effetti dell’esplosione. Il cratere era stato coperto, le lamiere colpite dalla proiezione delle schegge erano state spostate ed accatastate poco distanti, la parete del container colpita dalle schegge era stata completamente coperta da ramaglie e vegetazione, e i danni sulle infrastrutture, quali la porta d’accesso del prefabbricato e le sue pareti, erano stati riparati.

Si è così ricostruito l’accaduto: l’esplosione del 10 dicembre 2015 è stata causata dalla detonazione di una granata d’artiglieria ad alto esplosivo, l’esplosivo innescato, tra i 4 kg ed i 6 kg, era di tipo detonante, in eccellenti condizioni di conservazione, perfettamente efficiente e dotato di elevata potenzialità, con involucro in acciaio e calibro verosimilmente di circa 150 mm. L’ordigno è detonato all’interno di un bidone di carburante da 200 litri del tipo utilizzato nella seconda guerra mondiale, del diametro di 60 cm. e altezza di 86 cm., privo della copertura superiore, posto dove è stato individuato il cratere dell’esplosione. All’interno è stato acceso un fuoco e sul fondo, adagiata sul fianco, è stata posta la granata d’artiglieria.

Infatti, tra le tecniche più in uso normalmente utilizzate dai sedicenti “esperti” vi è quella di rimuovere il sistema di innesco, creare un accesso all’ordigno, di solito svitando l’ogiva o togliendo il fondello delle granate, e mettere così in luce il caricamento esplosivo. L’esplosivo a quel punto viene scriteriatamente infiammato e fatto bruciare, a volte anche con l’aggiunta di combustibile, fino a completa consumazione.

La finalità di questa pratica ha pure una valenza economica, perché i proietti d’artiglieria resi inoffensivi vengono rivenduti agli appassionati di residuati bellici, magari lucidati e riportati allo stato in cui si trovavano prima della dispersione o dell’abbandono sul terreno, che li conservano come oggetti ornamentali o di collezione, pagandoli cifre anche di migliaia di euro, variabili in ordine ad una serie di fattori.

Queste operazioni sono imprudenti, illegali e assai pericolose perché anche gli esplosivi composti da sostanze stabili, se infiammati, possono esplodere sviluppando elevate quantità di gas. Infatti, al raggiungimento di una determinata temperatura, variabile a seconda del tipo di esplosivo, per gli esplosivi detonanti secondari mediamente 300° C, ha luogo una reazione che cresce esponenzialmente in funzione della temperatura raggiunta. Nel caso di reazione veloce, la pressione sulla parete supera istantaneamente il valore necessario a provocare il cedimento su tutta la superficie del contenitore, e questo si frammenta in piccoli brandelli, le “schegge”, che possono essere accelerate a velocità balistiche, dell’ordine cioè di quelle dei proiettili delle armi.

Solo la concomitanza di una serie di circostanze fortuite ha permesso che nessuno sia stato colpito dalle schegge e frammenti metallici proiettati dall’esplosione e gli autori del fatto, già denunciati e di cui non si forniscono le generalità, si sono salvati perché fortunatamente e altrettanto inconsapevolmente si trovavano all’interno di un cono di sicurezza ove la proiezione delle schegge è stata minima, circostanza questa garantita dall’assenza della parte ogivale del manufatto.

Le indagini di polizia hanno pienamente confermato l’accaduto: attraverso l’acquisizione delle immagini, i sopralluoghi, le testimonianze, i tracciati telefonici e altre presidi tecnologici utilizzati si è potuto stabilire chi si trovasse in quel luogo a provocare l’esplosione, motivo per cui è stata inoltrata denuncia alla locale Procura della Repubblica. Al momento sono ancora in corso accertamenti per stabilire ulteriori responsabilità penali.


09/06/2016

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